ospedale

déchirer

Non so se poi ne parlerò, anche adesso ho difficoltà a riordinare i pensieri e a scriverne. Ma sento dentro da giorni un bisogno di dare loro uno spazio, contenerli in qualche modo. Vederli scritti potrebbe aiutarmi a comprendere questo momento importante di distacco, a frugare nella memoria recuperando il meglio, superando o buttando ciò che invece mi ha profondamente segnato, a dare pace a sentimenti contrastanti che mi sono portata dietro per anni.
Mio padre sta morendo in ospedale. Stanotte ho fatto la notte un’altra volta. E’ la settima da quando è stato ricoverato, alternandomi con mia sorella. Le notti in ospedale sono dimensioni che mi erano sconosciute: il luogo e il tempo sono diversi da qualsiasi altra cosa abbia mai sperimentato. Lo spazio è un’organizzazione anonima di pareti, linoleum, neon, lenzuola, coperte, macchinari, tra il grigio e l’arancione. Il tempo è dato da un’intermittenza: quella delle luci delle apparecchiature, dei corridoi, che si accendono e si spengono, dei led lampeggianti dei campanelli di soccorso, degli antincendio, dei numeri digitali che misurano pressione e saturazione. La notte è scandita dai passi delle ciabatte di gomma, dalle ruote pivotanti dei carrelli dei medicinali, da voci, lamenti, buchi improvvisi di silenzio, dalla porta del reparto che si spalanca con un risucchio.
Tutte le volte che guardavo l’orologio, pareva che le lancette facessero fatica a spostarsi anche solo di qualche minuto. Curiosamente, finivo per accorgermi che erano le 22.22, le 00.00, 01.01, e così via.
La notte in ospedale è il corpo indifeso che fisso e ascolto. Un corpo che sta perdendo la sua identità, che non ha quasi più il volto conosciuto, le espressioni, la voce, i gesti. Sono le gambe fredde, le braccia gonfie, la testa inclinata sulla spalla che appena a toccarla duole e la bocca emette un gemito di dolore. Gli edemi sulla pelle, il muco da pulire tra i denti, il torace che si solleva ad ogni insormontabile respiro e poi ripiomba su se stesso. Lo vedo nel buio della stanza, la sua maglietta tra le coperte, una bandiera bianca.
Sto seduta sul bordo della sedia, protesa verso di lui, e non so dove mettere le mani, se tenere la sua, tirare su le coperte, riposizionare i tubicini dell’ossigeno, massaggiare il piede destro ancora sensibile, rispondere quando chiama anche se non chiama me, qualcun altro, la mamma, un’idea di qualcuno che annaspa dal suo profondo, somministrare un po’ d’acqua con la siringa, dire qualcosa, piano ma non troppo piano, perché possa sentirmi, ma che gli altri due ricoverati nella camera non debbano sentire. Qui non c’è intimità, non c’è più vergogna. Le urine, le feci, i lavaggi, i clisteri, i cateteri, le mani dei tanti che si avvicendano attorno a questi corpi, tutti si vedono ma non si guardano. I parenti escono dalla stanza nei momenti più delicati, per preservare un ultimo brandello di pudore. Gli infermieri li chiamano tutti per nome, forte, perché spesso sono sordi, ed hanno in cambio a volte un sorriso, una risposta biascicata, un sussulto. Gli infermieri li conoscono a memoria eppure li dimenticheranno quando lasceranno l’ospedale, per far posto ad altri. Noi ci ricorderemo di loro: Vladimiro, Moreno, Roberta. Gli infermieri accudiscono anche la nostra impotenza, ci offrono il caffè all’alba, una coperta, un cuscino, mai avari di una parola, un buongiorno e si muovono per la camerata come ninja e cambiano flebo in quel quarto d’ora di sonno rubato senza svegliarci. Gli infermieri conoscono la morte ma non li sentirai mai parlarne. Ma la notte in ospedale, quando tutti sembrano dormire ma nessuno dorme, prigionieri dei propri terribili incubi, di non tornare più a casa e sussurrano frasi sconnesse, insulti, invettive, preghiere, nomi di persone e cose che pare il gioco che si faceva da piccoli, ecco la notte è una cappa pesantissima, nemmeno fuori è buio pesto come dentro se stessi. E l’alba arriva che è un tornare in superficie dopo una lunga apnea, e fa freddo e rumore vivo, di autobus e taxi, biciclette, bandoni tirati su e bar con le paste calde e un giornale da sfogliare. Così fumo seduta fuori dell’ospedale, la prima sigaretta dopo quasi 12 ore, a digiuno ed è così buona, aspiro fino in fondo e non tossisco.
C’è odore di croissant. Non ho voglia di baci, di carezze, di un letto caldo, lenzuola pulite, lavarmi il viso. La carne mi fa senso e il mio corpo adesso è un ingombro. Sto al freddo per sentire freddo e piove acqua ghiaccia questo 2 gennaio. Dèchirer, come dicono i francesi. Devo capire quando è accaduto, se sta per accadere, se adesso che me ne vado a casa, sentirò strapparmi da qualche parte, se mi farà male. Se non lo farà. Poi domani si ricomincia.

trasfusione

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