città

le città di mare

A me mi piacciono le città di mare, cozzano gli odori di fritto e di sale, le muffe sui muri, le persiane andate intrise di mareggiate e di scirocco, quando la rena taglia le labbra col maestrale, quando fa caldo sempre, sembra, e d’improvviso è inverno. C’è un resto di catrame sui talloni che non va mai via. Alle terrazze arriva a singhiozzo la nafta e si marezzano i pensieri. La luce benedice ogni sentire, che sia di mezzogiorno, verticale e violenta, o avanzo di tramonto, in ombra lunga incauta. Non ci somigliano un po’?

Livorno, dalla Terrazza Mascagni – photo F.L.

La città, gli amici e un fico

Ci sono luoghi che finiscono per appartenere ad alcune persone soltanto, perché li hanno fatti propri nel tempo che ho trascorso con loro. Sono diventati lo Spazio della Relazione e dove non è più possibile tornare se non da soli. Luoghi pubblici, ma anche solo piccole parti di questi, come una panchina, uno scalino, una balaustra, un incrocio. Si sono fatti casa, e lì hanno abitato sentimenti, conversazioni, silenzi, attese, incontri, commiati, in una intimità irripetibile ed inviolabile. Luoghi legati indissolubilmente e per sempre a dei volti, così che ogni volto è una chiave per riaprire quelle stanze, per quanto senza pareti, senza porte. Non si tratta di rinfrescare la memoria, che già basterebbe passarci anche di corsa o soffermarcisi appena, ma di riconoscere loro una specie di esclusiva. Sono posti che hanno avuto in sorte l’unicità e che non posso più frequentare con altri senza sentirmi in qualche modo adultera. Questa città ha una geografia che col tempo ho disseminato di frontiere e dogane. Quando ne incontro una e non sono da sola, l’attraverso con l’inquietudine di una clandestina, gli occhi bassi per timore che qualcuno possa chiedermi il passaporto o solo domandarmi: perché questa fretta? Eppure non sono soltanto luoghi di vecchie storie d’amore. Per quelli ho sempre troppo pudore e gelosia. Li evito naturalmente come se ne fossi stata sfrattata o diffidata. Le storie d’amore finite assomigliano a certi vecchi appartamenti, lasciati sfitti, qualcuno con ristrutturazioni abbandonate a metà dell’opera. Sembrano sempre occupare zone dalla viabilità faticosa dove ci si imbottiglia come niente e s’accumula ritardo nel tornare a casa. Se ci passa l’autobus, non lo prendo più. Sono tutti gli altri che rendono questa città un percorso ad ostacoli: quelli delle amicizie profonde e generose spese sui lungarni, dentro i caffè di Sant’Ambrogio o Via de’ Ginori, sulle scalinate di Santissima Annunziata o San Lorenzo, all’arco di San Piero o su per l’Erta Canina, ai giardinetti di Bellariva o sulla scesa di Palazzo Pitti.
I miei amici non lo sanno ma sono i custodi di questa città. Ad ognuno di loro ho affidato un territorio di confidenze e confessioni. A loro insaputa ne proteggono il segreto e ne piantonano i confini. Chissà se qualcuno mi ha mai tradito, se mai lo farà. Anche con le canzoni accade un po’ la stessa cosa, ma sono meno avare, si lasciano possedere, sono promiscue. Basta una radio, qualcuno che le suoni alla chitarra, che le canti; ci vuole folla per le canzoni, fanno terapia di gruppo. Le canzoni che ci hanno segnato, finiamo per metterle in piazza, e stiamo lì ad ascoltarle tutti insieme in attesa di un coming out da alcolisti anonimi. Ma una città è un’altra cosa. E’ un ascolto in cuffia, personale ed egoista. La mia è una città assediata, e così la voglio, da volti che hanno cambiato i nomi delle strade e delle piazze. E di un albero di fico su cui sono salita più di un anno fa.