notte

Mission

Molti pensieri, altrettanti dubbi. La notte è un carico di idee, di progetti ma il mattino rimanda la consegna. C’è un tutto-quanto già in fila, in attesa sul bordo del letto. Il tuttoquanto reclama con le voci dei suoi innumerevoli figli: “Sono arrivato prima, tocca a me, ho il nulla osta, la precedenza, ho prenotato, ne ho diritto, me lo devi, è tuo dovere, l’hai promesso, ne sei responsabile, per amore! “ Ma in quei pochi centimetri, tra il pigiama e le ciabatte, lo spigolo del comodino e l’orologio, quella minima distanza tra l’adesso e l’oggi, prima che giungano tutti gli schiamazzi, sento che si fa largo una visione, che mi è rimasto qualcosa della notte, come una piega di cuscino impressa sulla gota. 

allargo

Sarà estate anche per me che aspetto una terrazza, un giardino, due sdraio,
la griglia, le patate nell’alluminio.
Il tempo dedicato al ritardo, della doccia, della cena, la sosta sui cruciverba.
Conosco il mare da dietro, le cabine, i caffè, il cinema all’aperto che puzza d’umido e di sale,
il mare dell’ombrellone divelto dal maestrale, del troppa gente, delle alghe scansate con lo schifo e un paio d’infradito,
la passeggiata e il cono gelato e delle notizie l’eco.
Aspetto il mare la notte senza grida d’aiuto, il rintocco dell’onda e la sua ninnananna,
per il giorno di ferragosto e gli auguri di festa, è questo il mare che ho nella testa.
Che orrore, che bellezza, che vigliaccheria scrivere saluti & baci sulla cartolina da 1 euro
mentre suona la sirena e allargo si compie
la notte disattesa, l’inverno dei molti.

déchirer

Non so se poi ne parlerò, anche adesso ho difficoltà a riordinare i pensieri e a scriverne. Ma sento dentro da giorni un bisogno di dare loro uno spazio, contenerli in qualche modo. Vederli scritti potrebbe aiutarmi a comprendere questo momento importante di distacco, a frugare nella memoria recuperando il meglio, superando o buttando ciò che invece mi ha profondamente segnato, a dare pace a sentimenti contrastanti che mi sono portata dietro per anni.
Mio padre sta morendo in ospedale. Stanotte ho fatto la notte un’altra volta. E’ la settima da quando è stato ricoverato, alternandomi con mia sorella. Le notti in ospedale sono dimensioni che mi erano sconosciute: il luogo e il tempo sono diversi da qualsiasi altra cosa abbia mai sperimentato. Lo spazio è un’organizzazione anonima di pareti, linoleum, neon, lenzuola, coperte, macchinari, tra il grigio e l’arancione. Il tempo è dato da un’intermittenza: quella delle luci delle apparecchiature, dei corridoi, che si accendono e si spengono, dei led lampeggianti dei campanelli di soccorso, degli antincendio, dei numeri digitali che misurano pressione e saturazione. La notte è scandita dai passi delle ciabatte di gomma, dalle ruote pivotanti dei carrelli dei medicinali, da voci, lamenti, buchi improvvisi di silenzio, dalla porta del reparto che si spalanca con un risucchio.
Tutte le volte che guardavo l’orologio, pareva che le lancette facessero fatica a spostarsi anche solo di qualche minuto. Curiosamente, finivo per accorgermi che erano le 22.22, le 00.00, 01.01, e così via.
La notte in ospedale è il corpo indifeso che fisso e ascolto. Un corpo che sta perdendo la sua identità, che non ha quasi più il volto conosciuto, le espressioni, la voce, i gesti. Sono le gambe fredde, le braccia gonfie, la testa inclinata sulla spalla che appena a toccarla duole e la bocca emette un gemito di dolore. Gli edemi sulla pelle, il muco da pulire tra i denti, il torace che si solleva ad ogni insormontabile respiro e poi ripiomba su se stesso. Lo vedo nel buio della stanza, la sua maglietta tra le coperte, una bandiera bianca.
Sto seduta sul bordo della sedia, protesa verso di lui, e non so dove mettere le mani, se tenere la sua, tirare su le coperte, riposizionare i tubicini dell’ossigeno, massaggiare il piede destro ancora sensibile, rispondere quando chiama anche se non chiama me, qualcun altro, la mamma, un’idea di qualcuno che annaspa dal suo profondo, somministrare un po’ d’acqua con la siringa, dire qualcosa, piano ma non troppo piano, perché possa sentirmi, ma che gli altri due ricoverati nella camera non debbano sentire. Qui non c’è intimità, non c’è più vergogna. Le urine, le feci, i lavaggi, i clisteri, i cateteri, le mani dei tanti che si avvicendano attorno a questi corpi, tutti si vedono ma non si guardano. I parenti escono dalla stanza nei momenti più delicati, per preservare un ultimo brandello di pudore. Gli infermieri li chiamano tutti per nome, forte, perché spesso sono sordi, ed hanno in cambio a volte un sorriso, una risposta biascicata, un sussulto. Gli infermieri li conoscono a memoria eppure li dimenticheranno quando lasceranno l’ospedale, per far posto ad altri. Noi ci ricorderemo di loro: Vladimiro, Moreno, Roberta. Gli infermieri accudiscono anche la nostra impotenza, ci offrono il caffè all’alba, una coperta, un cuscino, mai avari di una parola, un buongiorno e si muovono per la camerata come ninja e cambiano flebo in quel quarto d’ora di sonno rubato senza svegliarci. Gli infermieri conoscono la morte ma non li sentirai mai parlarne. Ma la notte in ospedale, quando tutti sembrano dormire ma nessuno dorme, prigionieri dei propri terribili incubi, di non tornare più a casa e sussurrano frasi sconnesse, insulti, invettive, preghiere, nomi di persone e cose che pare il gioco che si faceva da piccoli, ecco la notte è una cappa pesantissima, nemmeno fuori è buio pesto come dentro se stessi. E l’alba arriva che è un tornare in superficie dopo una lunga apnea, e fa freddo e rumore vivo, di autobus e taxi, biciclette, bandoni tirati su e bar con le paste calde e un giornale da sfogliare. Così fumo seduta fuori dell’ospedale, la prima sigaretta dopo quasi 12 ore, a digiuno ed è così buona, aspiro fino in fondo e non tossisco.
C’è odore di croissant. Non ho voglia di baci, di carezze, di un letto caldo, lenzuola pulite, lavarmi il viso. La carne mi fa senso e il mio corpo adesso è un ingombro. Sto al freddo per sentire freddo e piove acqua ghiaccia questo 2 gennaio. Dèchirer, come dicono i francesi. Devo capire quando è accaduto, se sta per accadere, se adesso che me ne vado a casa, sentirò strapparmi da qualche parte, se mi farà male. Se non lo farà. Poi domani si ricomincia.

trasfusione

Inserisci una didascalia

Ogni primo del mese

Ad ogni primo del mese
so che avrò altri trenta giorni per scordare
l’ultima volta che ci siamo visti.
Non passerai docile per il calendario
nemmeno questa volta.
Farò largo nella riga dei santi ad un appunto
con uno spillo, una bandierina rossa,
che ogni domenica si faccia terreno di conquista!
Di tutti i senza, bottino.
Ti ho deportato per anni
dentro il mio cuore malato
e tu mai hai saputo
che avrei potuto ucciderti ogni notte
strappando in mille pezzi
quelle pagine.

il bacio della buonanotte

L’ho dato e l’ho ricevuto. Quando la luce accesa nel corridoio teneva i mostri lontani dalle seggiole di camera. Quando mi colpiva di fretta sulla tempia e me ne accorgevo mentre la porta si chiudeva, troppo tardi perfino per restituirne uno a parole. L’ho dato nelle camere fitte di buio e disordine, inciampando nel dedalo di scarpe. L’ho preso sui capelli, sulle orecchie, sulla spalla che sbucava dalle lenzuola, senza voltarmi, col sonno annodato stretto tra polsi e cuscino, un’abitudine d’amore quasi senza amore. L’ho dato molto prima del sonno a chi andava via di fretta dal tavolo della cena e quasi all’alba, dopo aver aspettato a lungo un rientro e tirando un sospiro di sollievo, e poi una coperta fin sulla testa a corazza di tutta quell’attesa. Lo voglio ancora un bacio della buonanotte.
Cardine di intimo perdono, a pacificare i conflitti del giorno. Disarmo di rancori e promessa di ricongiungimento. Quel punto di tangenza che concentra tutte le somiglianze e inverte i ruoli di volta in volta, di madre, di figlia e di compagna, sconosciuta e ritrovata. Il bacio della buonanotte non assomiglia a nessun altro bacio. Ha la fragilità d’essere l’ultimo, la paura di esserlo. Lo si confina nei gesti d’abitudine per sottrarci al terrore della sua assenza. Poi si rinnova. Nel fiato trattenuto, caldo, c’è tutta la nostra tenacia.

Where did the night go

Long ago the clock washed midnight away
Bringing the dawn
Oh God, I must be dreaming
Time to get up again
And time to start up again
Pulling on my socks again
Should have been asleep
When I was sitting there drinking beer
And trying to start another letter to you
Don’t know how many times I dreamed to write again last night
Should’ve been asleep when I turned the stack of records over and over
So I wouldn’t be up by myself
Where did the night go?
Should go to sleep now
And say fuck a job and money
Because I spend it all on unlined paper and can’t get past
“Dear baby, how are you?”
Brush my teeth and shave
Look outside, sky is dark
Think it may rain
Where did
Where did
Where did

Il maestrale, Amir e l’occhio di Santa Lucia

Non dormo una notte intera da molto tempo. Vado avanti per due, tre ore poi ho un arresto. Si interrompono anche i sogni, perfino quelli più divertenti, ed è un vero peccato non sapere come vanno a finire. Quelli che non sono divertenti lasciano invece un livido al risveglio improvviso, quasi avessi sbattuto in uno spigolo nella corsa a venir via. Dicono sia colpa degli ormoni, dell’età, dell’ansia, oppure del caldo, del freddo, del fumo e della caffeina. Anche del maestrale.
Siamo tornati in Sardegna per dieci giorni. Una vera vacanza dopo tre anni. Il classico sole-mare-cibo-sonno in un loop continuo senza cali di tensione, ma non avevo fatto i conti col vento. Un piccolo appartamento nella parta alta di Orosei, a ridosso di rovi di more, fichi d’India e un cantiere di una villa sullo sfondo, incompiuta, quasi un bunker abbandonato. Solo il blocco bianco di un condizionatore e un filo tempestato di mollette lascia intendere una qualche forma di vita oltre il muro, ma per dieci giorni non ho visto nessuno, nemmeno la spazzatura, che deve essere lasciata diligentemente nel cortile secondo il calendario della raccolta differenziata. Col buio arriva alla terrazza il movimento del corso e dei locali, il mare invece è una riga nera molto lontana, ma so che c’è. Quando caliamo in paese, accordandoci al passo strascicato dei vacanzieri, ci sentiamo meno soli. Amir è un pakistano che ha un banco di bigiotteria proprio di fronte alla chiesa; di giorno si fa tutte le spiagge, da Orosei a Cala Ginepro, lui e Mohamed e un altro di cui non so il nome, forse fratelli, ma non di sangue, per coincidenza probabilmente nel ritrovarsi qui insieme, per assimilazione di speranza. D’inverno vive a Salerno, studia all’alberghiero, farà il cuoco – mi dice – e non gli importa granché di Masterchef. L’ho rivisto risalire spesso verso casa – “è a cucinare” mi spiega Mohamed,  “è  in Ramadan”-  e mi domando quante ore abbia passato sotto il sole senza bere anche un solo goccio d’acqua, offrendo pietre dure e indurite, dall’abitudine e dalla pazienza, all’umanità distratta sotto l’ombrellone. Compro un paio di orecchini che sono un guizzo di luce: una goccia bianca, una quasi perla, non per necessità né per desiderio, perché ho tempo e vorrei rimanere ancora lì a farmi raccontare storie. Si contratta il prezzo secondo copione ma l’accordo è già a monte e sta nel momento stesso in cui mi sono fermata al banco. Li ho messi tutte le sere, quegli orecchini,  come un ringraziamento. Il maestrale ha poi  sbattuto le imposte e ce le ha fatte chiudere. Ha soffiato e sputato per tutta la casa, ho rivoltato il cuscino, dalla testa ai piedi, finché ho sentito freddo dentro i capelli e mi sono coperta, con gli occhi spalancati cercando scudo in pensieri buoni mentre continuava a sudare tra le cosce un intermittente senso di colpevolezza. D’essere altrove e al riparo, “unplugged”, distante dagli incubi del mondo, egoista in quello stare bene, accudita da un temporaneo senso di felicità. Ma il maestrale c’infila l’orrore nelle crepe del muro, mitraglia di sabbia, sbatacchia la lattina in strada che rimbalza di marciapiede in marciapiede che stordisce peggio di una campana. E non dà tregua se non alla prima luce del giorno, quando fa quel rosa antichissimo come un unguento.  Mi sono addormentata spesso alle cinque di mattina con la stessa rassegnazione che ho avuto questo inverno. Di giorno mi bruciavano gli occhi, in traghetto al ritorno ho fumato sul ponte solo un paio di volte nell’angolo più protetto, tra gli occhi socchiusi ho intravisto anche l’isola d’Elba. Ho riportato dei sassi e un occhio di Santa Lucia, trovato senza averlo mai cercato in un giorno di maestrale. Serendipity.